Calice di Vino
Calice di Vino

Tra i fattori decisivi per lo sviluppo della civiltà fin dai suoi primordi, uno dei meno considerati è la scoperta della fermentazione alcolica. Non si tratta di tesi stravagante: a ogni latitudine e fascia climatica, lega l’umano al divino, struttura l’organizzazione sociale, la religione, le regole igieniche, la creatività e la lotta all’etilismo, annoverando anche un discreto numero di studi storici e antropologici.

La storia inizia con il consumo di frutta guasta. In epoca preistorica non doveva essere così infrequente, perché allora non si buttava via nulla, figuriamoci i frutti già caduti in terra o un po’ irranciditi dall’accumulo in provviste; o il succo avanzato dai frutti stessi. Quel consumo genera un leggero stordimento e il nostro cavernicolo non ne può capire il motivo. Ignora che funghi unicellulari chiamati saccaromiceti attivati in ambiente anaerobico trasformano lo zucchero in alcol e anidride carbonica. Fatto sta che ne rimane leggermente e piacevolmente stordito: da quel momento in poi, per tutto il resto della sua evoluzione sociale, cercherà di replicare, guidare, sfruttare e regolamentare quella sensazione.

Una sensazione misteriosa, inebriante e gioiosa, certamente attribuita a cause soprannaturali come i fulmini e le eclissi, eppure così necessaria per l’uomo che, o perché caccia o perché cacciato, corre tutto il giorno nella savana per non crepare, come recita l’adagio. Altro che stress, chiaro che ogni tanto un conforto ci vuole.

Un effetto che predispone all’incontro con l’altro, ma anche con l’altra, perciò utile a rafforzare la struttura sociale e a incentivare la riproduzione; che espande i sensi in direzione della creatività, del ritmo, della musica e della danza; che avvicina al soprannaturale. Ma anche potenzialmente destabilizzante e tossico, in grado di allentare controllo e lucidità, di annientare la memoria, e dunque anche bisognoso di un’efficace regolamentazione. In alcune civiltà solo alcuni eletti ne possono fare uso, che siano sciamani o sacerdoti, sennò sai che caos.

Fatto sta che in ogni tempo e in ogni parte del mondo ci si è dedicati a ottenere bevande alcoliche da qualunque sostanza zuccherina. La più antica di tutte è l’idromele, ottenuto dalla fermentazione di miele allungato con l’acqua, ma quando 10.000 anni fa l’umanità addomestica le piante e diventa stanziale, la materia prima diventa agricola: la seconda bevanda alcolica più antica della terra è infatti la birra, ottenuta dalla fermentazione delle granaglie.

Secondo una leggenda africana, le donne perdono coda e pelliccia quando il dio della creazione insegna loro a fare la birra, ed è così che ebbe origine l’umanità. Gli egiziani nel III millennio pagano gli operai delle piramidi di Giza con 4 litri di birra al giorno, molti popoli alla birra dedicano un dio o una dea, come la mesopotamica Siris; la producono gli Aztechi, che fermentano il mais, e in Cina già 7000 anni fa. La birra è dunque figlia dei cereali, sorella non minore del pane, nasce ovunque si coltivino grano, orzo, avena, frumento; non è affatto un prodotto dei climi freddi e compare molto prima del vino. E data l’azione antisettica della fermentazione, è particolarmente utile dove non è possibile bere acqua pulita.

Pare invece che la vera patria della vite, botanicamente parlando, sia il Caucaso, dove veniva coltivata 5000 anni prima di Cristo; e che intorno al 2000 a.C. da lì si sia diffusa verso l’Anatolia e solo successivamente nel Mediterraneo. Memoria di questa origine è contenuta nel racconto del diluvio di Noè, la cui arca si posa proprio sul monte Ararat, nel Caucaso meridionale; l’umanità conta ancora solo otto persone e, racconta la Genesi, lui già pianta una vigna e si ubriaca, secondo la Cei perché nessuno aveva mai vinificato prima e Noè non ne poteva dunque conoscere l’effetto, non perché gli andava. Mah.

Certo, il vino che i greci portano fino in Enotria, che poi vuol dire ‘terra del vino’ e sarebbe l’Italia, non era esattamente quello che conosciamo oggi. Allungato con acqua per attenuarne il tasso alcolico, miscelato con gesso, creta o polvere di marmo per fermare la fermentazione, sigillato negli otri con resine di pino, aromatizzato con miele, spezie o agrumi per coprirne il rancido, era roba da far stare male. Alessandro Magno, ammonisce Ateneo, morì poco dopo una colossale sbronza; Lucrezio, più tardi, metterà in guardia dagli effetti dell’etilismo acuto: “un uomo è invaso dalla forza di un vino generoso, … le membra diventano pesanti, le gambe impacciate e il passo barcollante, la lingua pastosa, l’intelligenza ingarbugliata, gli occhi fluttuanti.” Per questo i greci, quei gran raffinati, disciplinano il consumo di vino in società, e definiscono le regole della sua condivisione nel simposio, che trasmetteranno ai romani: consumare in piccole coppe, allungare il vino, bere tra pari per evitare risse.

La storia continua. Nell’uso rituale del vino degli ebrei e dei cristiani sopravvive lontano l’eco del nesso tra vino e di-vino, tra fermentazione ed espansione del sé. La birra si trasferisce più a nord, dove il lascito delle tradizioni druidiche porta all’uso di luppoli, e di strumenti e metodi da veri alchimisti. Arriveremo a livelli di perfezionamento del gusto che ci fanno parlare, oggi, di gusti, sentori, retrogusti e terroir in un modo talmente compiaciuto da divenire spesso roba per soli iniziati, con frustrazione di larghi strati di consumatori che i sentori di banana e liquirizia, di cuoio, di frutti rossi eccetera proprio non riescono a sentirli.

Ma in tutti sopravvive un bisogno potente, primordiale, al quale l’umanità ha dedicato un’attenzione davvero impressionante. Noi di TheBlogLife.net non vogliamo esser da meno, e presto torneremo sull’argomento.

(Sergio Celestino)

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