Sergio Celestino Caucaso

Quando dicevo agli amici ‘Quest’estate vado in Caucaso’, in genere mi rispondevano ‘Bello, ma stai attento’.

Più un luogo è lontano, indefinito nella mappa mentale (‘Aspetta, Caucaso, Caucaso…’) e nell’associazione di immagini (per i più colti: guerre, giocatori di calcio, al limite il kefir), più si ritiene che sia pericoloso. E poi, quando non si ha bene in mente chi ci vive e cosa ci fa lì, si dice sempre che è una terra di confine, un luogo di passaggio, in questo caso tra Europa e Asia: complici mari non meglio identificati (ma perché si chiama mar Nero? forse è inquinato? nel mar Caspio si tocca anche a largo?); vie della Seta, che arrivano un po’ ovunque, tipo la Via Francigena e le indicazioni Auditorium; lingue e alfabeti per pochi milioni di persone, incomprensibili al resto del mondo.

Insomma, il Caucaso è un luogo strano e misterioso, e per me è un motivo sufficiente per decidere che quest’anno si va in Caucaso, con il supporto di una nota agenzia di viaggi di gruppo avventurosi e mondiali, di cui non faremo il nome. Confesso che di questo Caucaso, atteso da anni, avevo una conoscenza un po’ più avanzata, ma non di molto: turrite chiese armene; luoghi di nascita della vite, del vino e di Stalin; gas azero e visite di Draghi; alte montagne; pollo al coriandolo. E poi le tragedie della storia recente: genocidio armeno, repressione sovietica, nomi tristemente evocativi come Cecenia, Abkazia, Nagorno-Karabakh. Beh, è già molto, direte voi.

Troppo poco, per i miei gusti. E allora comincio a viaggiare ben prima della partenza, procurandomi – oltre alla solita guida del pianeta solitario, di cui pure non faremo il nome – Imperium, il magistrale reportage di Ryszard Kapucinski sulle repubbliche sovietiche, istantanea della disgregazione post-comunista. Tra queste c’è anche la Repubblica Socialista della Transcaucasia, in cui i russi avevano fuso insieme Georgia, Armenia e Azerbaigian, con la tipica ingegneria sociale fatta di spostamenti di confini, di popoli e di carri armati. Nei folli progetti staliniani serviva a prevenire nefasti nazionalismi e creare l’homo sovieticus: territorialmente neutro, alienato, spiantato, premessa per decenni di feroci conflitti a venire, come in Ucraina e in tanti altri luoghi dell’ex limes russo.

Insomma, nel Caucaso c’è roba forte. I fautori dei soliti ‘luoghi di passaggio’ vi diranno che siamo tra la Russia, la Turchia e l’Iran; tra due mari, affacciati sia a Occidente che a Oriente; solcati dalle vie della Seta, appunto, e quindi destinati a prender schiaffi un po’ da tutti, zar, ottomani, persiani ma anche greci e romani, e ad assorbire influenze da tutti e quattro i punti cardinali. Come se a quei luoghi mancasse una specifica identità propria, fiera e resistente. Che idea assurda.

Se ti trovi nei grandi incroci della Storia e della Geografia puoi prenderle da tutti, ma anche darle a tutti di santa ragione, dipende dalla tua estroversione. C’è stato un tempo in cui l’Armenia era una grande potenza regionale, che occupava tutta l’area caucasica e l’Anatolia, fino ai confini con Siria e Persia; i Romani, che all’epoca erano fissati con la guerra ai Parti, ne fecero uno stato vassallo, retto da re fantocci (Tiridate, Mitridate, Cosroe ecc.).

Poi fu la volta di Santa Nino e San Gregorio. Evangelizzarono rispettivamente Georgia e Armenia, che già nei primissimi anni del IV secolo, quando noi ancora bruciavamo i cristiani, primi al mondo si convertirono al Vangelo, ancora prima che la Chiesa si mettesse d’accordo sui fondamentali: le chiese apostoliche ortodosse georgiana e armena, oltre ad essere antichissime, sono autocefale (cioè non rispondono né al Papa di Roma né ai vari patriarchi ortodossi) e secondo alcuni perfino eretiche. In ogni caso, quando la Grande Armenia collassò sotto i colpi di arabi e sassanidi, ebbe inizio la famosa diaspora: dalle grandi città d’Oriente, Costantinopoli, Aleppo o Gerusalemme (ma anche Napoli), dove ci sono sempre quartieri e chiese armene, fino a Charles Aznavour e Kim Kardashian. I georgiani, protetti dalle arcigne montagne del Grande Caucaso, sono restati più o meno dov’erano, di loro si è sempre parlato molto meno e un po’ ne soffrono ancora oggi.

E poi, a parte le questioni cristiane, in Azerbaigian è nato lo zoroastrismo, la religione dei persiani prima dell’islamizzazione. Una terra intrisa di idrocarburi, dove le fiamme spuntano dal terreno come funghi porcini, non poteva che generare una religione che adora il fuoco.

Tutto questo per ampliare i sensi, e avere qualche chiave di lettura in più nel corso del viaggio. Il coriandolo e il cardamomo, le noci e il melograno che trovi in una cucina decisamente interessante, testimonianza di scambi tanto estesi. Le torri – chiese a forma di torre, case di montagna a forma di torre, per difendersi anche mentre si prega, si mangia e si dorme. Un attaccamento viscerale alla religione e alle tradizioni, per secoli uniche ancore di salvezza e di identità. Bolle improvvise di ricchezza dove sono gas e petrolio, come a Baku che sembra una specie di Dubai, ma con un centro storico turcomanno e una periferia sovietica su cui è caduta la mano di archistar mondiali. Il vino, che da ottomila anni si vinifica in bianco in anfore interrate, dove la vite nasce autoctona. Verde e rigogliosa la Georgia, riarso e predesertico il resto, con infinite sfumature rosa e arancio dei tufi vulcanici. Il monte Ararat, quello di Noè e della sua prima sbronza, simbolo d’Armenia ma oggi in territorio turco: quando Erdogan ha detto sprezzante ‘Togliete dalla vostra bandiera un simbolo che non vi appartiene’ Sarkissian gli ha risposto ‘Allora voi togliete la luna e la stella dalla vostra, anche quelle non vi appartengono’. Da queste parti la gente normale è estremamente ospitale e amichevole, ma tra capi di stato e eserciti volano botte da orbi.

I russi nel 2009 si sono ‘ripresi’ Abkazia e Ossezia dalla Georgia: questa implorò l’occidente di intervenire, ma la Georgia non è l’Ucraina e non se ne fece niente. L’Armenia è in guerra con l’Azerbaigian per il Nagorno-Karabakh, territorio azero abitato da armeni – uno dei lasciti di Stalin. I georgiani sono in buoni rapporti con tutti tranne che con i russi, ovviamente, mentre gli armeni dipendono dalla Russia ma hanno problemi con i turchi che negano il genocidio e che sostengono gli azeri. Però più o meno tutti vanno d’accordo con gli iraniani, e si vede: molti vengono qui per turismo e le donne, bellissime, finalmente si tolgono il velo. La chirurgia estetica va forte, benché non ce ne sarebbe affatto bisogno, ma in modo differenziato: silicone a volontà per russe e armene, mentre le iraniane si concentrano sul naso, secondo loro troppo ossuto. Le azere sono musulmane ma non portano hijab, quando vedi il burka integrale è perché sotto ci sono turiste saudite.

Resta il fatto che in due settimane ho visitato tre stati, con tre cambi di lingua e monete, confini come una volta – fili spinati, soldati e sguardi severi, ma poi va a finire sempre ‘Italian? Roma Mikitarian, Napoli Kvaratskelia’ – decine di chiese e monasteri e poi ore e ore di pulmino. La formula dell’anonima agenzia di viaggi avventurosi procede a tappe forzate, arrivando all’aberrazione dei photo-stop: scendere pulmino-fare foto-risalire pulmino. Mancano momenti di lentezza, contemplazione, incontro. Paesaggi e persone visti di sfuggita, attraverso il finestrino come in un safari. Il costante filtro di guide locali italofone ti dispensa dallo switch linguistico, così necessario per sentirsi davvero in viaggio.

Finché un giorno, a Tiblisi, decido di seminare il gruppo. Per qualche ora fuggo e prendo la metropolitana, per cercare non la città dei musei, delle chiese e dei ristoranti, ma quella delle persone. È tardo pomeriggio, fiumi di umanità stanca tornano dal lavoro, le ragazzine escono per la sera. Bisogna fare il biglietto, capire come funziona, linea e direzione, contare fermate, decifrare indicazioni, chiedere informazioni, insomma entrare in contatto. Il design è decisamente basic, fatto per grandi numeri, i convogli e le scale mobili sferragliano come una grande catena di montaggio, un po’ arrugginita ma ancora funzionante, come una decadente fabbrica post-sovietica. Finalmente soli, io e l’incessante martellare del quotidiano nelle viscere di Tiblisi. Sembra un film di Eisenstein.

Tra i suoi ingranaggi, sedute di fronte a me sullo sfondo color lamiera del vagone, una struggente scena muta. Due donne, una dev’essere la madre, la più giovane ha con sé una valigia. Dietro gli occhiali scuri, in silenzio e di nascosto l’una dall’altra, scendono lacrime: si separeranno, forse vorrebbero tenersi per mano, chissà se si rivedranno, e quando. Sono tutte e due molto belle. Per un attimo i nostri sguardi si incrociano, forse vogliono dirmi qualcosa, poi scendono e spariscono, per sempre, inghiottite dalla folla. Non le rivedrò mai più, eppure sento che siamo stati, per un breve attimo, connessi. Il Caucaso, il Grande Incrocio di persone, di storie e di diaspore, se le porta via.

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