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Il beato popolo italiano, inteso in senso lato, è venuto a conoscenza dell’esistenza del Camerun, inteso come nazione dell’africa sub sahariana, ai mondiali di Spagna del 1982 (finì 1-1, e mi pare anche – ma giuro che non ho guggolato – che il portiere si chiamasse N’Kono).

james_mon_paysif_camerounSe ne sarebbe ricordato altre due volte. Nel 1998, sempre calcisticamente parlando (3-0 per noi), e nel 1994, quando a Tunnel Cinzia Leone stigmatizzava la debolezza della lira italiana ai tempi dell’ultima svalutazione: ci batte pure la Pizza de Fango del Camerun. “Ma chi ci va in Camerun?” chiedeva la Dandini; e la signora Vaccaroni, che poi era anche quella che stava aperta Dalle-otto-alle-otto: Noi no!

Molti anni dopo, noi invece – inteso nel senso di io e un collega colombiano – in Camerun ci saremmo andati, per un progetto di formazione universitaria finanziato dalla Banca Mondiale e patrocinato dal locale Ministero dei Lavori Pubblici, argomento Mobilità Sostenibile, ma questo lo dico solo per anticipare la legittima domanda: andati a far che.

Quello che qui più mi preme raccontare è se il Camerun, come il Molise, esiste davvero, ed eventualmente  cosa c’è; anche se per onestà intellettuale debbo dirvi che io sono stato solo a Yaoundé, la capitale, e che ora non è che voglio spacciarmi per esperto di Camerun essendo stato solo in una città, sebbene essa sia la capitale, e per giunta per meno di dieci giorni; però tenete presente che se uno è una persona curiosa e da piccolo leggeva Salgari e non era mai stato in Africa prima, intesa come Africa nera, e ne sente parlare da una vita come luogo di origine della civiltà, misterioso luogo dell’anima animista, agognata terra di conquista di spietati colonizzatori eccetera poi quando in Africa ci va per davvero si porta dietro tutto un carico di emozione, come conoscere di persona Totti, Elodie o Alessandro Barbero. Di qui il desiderio di raccontare.

Il Camerun non è uno di quei paesi africani che se parli male del Presidente sparisci nel nulla. Per quanto Paul Biya, ottantanovenne, sia lì da prima che l’Italia pareggiasse col Camerun, sette mandati e non intende farsi da parte, e sebbene possa essere considerato un autocrate – uno che viene sempre eletto con il 70-80 percento –  non è un vero e proprio dittatore, alla Mobutu per capirci. Io non ci ho parlato, ma sicuramente amerà ripetere che lui con tutti i suoi difetti è comunque riuscito ad assicurare al Camerun un certo benessere, e che quanto a PIL il paese è il tredicesimo stato più ricco dell’Africa – ne sono cinquantaquattro. Peraltro, ricordandovi che la moneta non è  la Pizza de Fango ma il Franco Africano.

Lo dico perché questa storia che se uno dice Africa agli italiani vengono in mente i bambini con la pancia gonfia e le mosche negli occhi deve finire. In Africa ci sono stati e istituzioni africane, opinione pubblica, telegiornali, supermercati e discoteche e università africane, e anche mode, tendenze, arte, farmacie e ristoranti cinesi africani, ma non voglio ora qui aprire l’argomento della Cina in Africa; e non è perché al ristorante puoi mangiare la vipera del Gabon o il varano che tutto deve assumere sempre quell’insopportabile forma di paternalismo che ti porta o a dire sempre, Che carini, oppure a dire, Aiutiamoli a casa loro, così non vengono a rompere qua. Detto ciò, certo che Yaoundè è un casino.

Le città africane sono in piena esplosione. La gente abbandona le zone rurali per le grandi città, dove tenta di sopravvivere prevalentemente vendendo cose. Ai lati delle strade, sui marciapiedi – sì, in Africa ci sono anche i marciapiedi e enormi cunette, per la stagione delle piogge, dei veri e propri canali, e ogni tanto qualche camion ci finisce dentro – è una teoria continua di gente che vende qualsiasi cosa, taniche, fotocopie, divani, magliette, spiedini, pneumatici, manichini ecc., e tutti ti rimediano tutto anche se non lo vendono direttamente, perché la rete umana informale è estesissima e interconnessa. Lungo la strada altra gente in infinite file ordinate aspetta pazientemente un taxi. Quasi tutte le auto in circolazione sono vecchie Toyota gialle, il cui costo viene ripagato dal proprietario con il servizio di taxi collettivo, inteso come carico di più gente possibile; seguono le moto, che però come taxi portano un massimo di quattro passeggeri, e vecchi camion. A Yaoundè non ci sono autobus. Traffico e inquinamento, soprattutto se uno si aspettava capanne, giraffe e sole gigante che tramonta sulla savana, sono spiazzanti. Verso il tramonto, da quelle parti alle sei-sei-e-mezzo, i proprietari se stanno a bordo strada a pulire paraurti, cerchioni e moto, perché i mezzi siano scintillanti per il servizio del giorno dopo, o per la movida della sera.

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La dimensione urbana prevalente è l’orizzontalità. Case basse, casupole, baracche e chioschi su cui svettano solitari i grandi edifici governativi, quelli dell’indipendenza dalla Francia, quando l’architettura anni ’60 esprimeva l’entusiasmo delle catene spezzate del continente nero, di solito attraverso stili ruvidi e assertivi come funzionalismo e brutalismo, che da queste parti è andato forte; altrettanto solitari gli alberi, giganteschi, scultorei, anzi architettonici, che alzi il tuo sguardo di europeo e li trovi così esotici, sembra di stare in un giardino botanico polveroso di polvere di terra rossa; ma loro lì sono a casa loro, esotico sarai tu che non vedi altri europei in giro, ti aspettavi che tutti ti guardassero strano e invece non ti si filano proprio, mentre lucidano ruote e vendono caffettiere.

Ogni tanto ti imbatti in un monumento dalle forme impegnative, in genere nelle rotatorie: su uno con un enorme pallone da calcio c’è scritto “J’aime mon pays le Cameroun – I love my country Cameroon”, perché in Camerun si parla francese, ma al confine con la Nigeria c’è una regione anglofona che da qualche tempo rivendica istanze separatiste, anche con il terrorismo: e dev’essere per questo, penso, che è così importante che il paese ribadisca fieramente di essere bilingue. I miei studenti, tutti francofoni, con l’inglese se la cavano assai meglio dei loro colleghi italiani. E sono molto più curiosi e accoglienti, ma non lo dico per buonismo africanista.

Su questa storia della natura africana fantastico da molto tempo, e non è solo per via di Quark. Penso al racconto di Kapuscinski in Ebano, quando scende dall’aereo e viene investito da un’ondata di calore umido e si sente “pallido, debole, inadeguato alla biologia instancabile ed esuberante dei tropici, ai suoi odori gradevoli e ripugnanti, attraenti e disgustosi”. A me sulla scaletta dell’aereo viene incontro una brezza piacevole, sui ventiquattro gradi, che sono più di dieci in meno di quelli che ho lasciato a Roma. È la stagione delle piogge, siamo nella fascia climatica della foresta pluviale e tutto è verdissimo, gli alberi sono alti come palazzi di cinque o sei piani e sono tutti diversi per forma, tronco, foglie, sembrano disposti, potati e curati da un giardiniere gigante. Anche i portoghesi, che esploravano queste parti nel XVI secolo, dovettero restare colpiti dalla natura, segnatamente dai giganteschi fiumi: e notarono una straordinaria quantità di gamberetti, in portoghese camaroes da cui Camerun, pensa te. La terra è rosso brillante, brillanti i colori dei vestiti della gente, la pelle nerissima e liscia, anche nello smog del centro non mi pare di vedere vestiti che non siano brillanti e puliti, dev’essere la luce del sole, penso, l’inclinazione dei raggi solari, eppure il sole non lo vedo mai perché è sempre nuvoloso. Non sento zanzare. Non mi verrà la dissenteria – sono stato male in viaggio in Romania, in Bosnia mi hanno pure portato in ospedale  – eppure qui ho mangiato il serpente, e il pesce in un Restaurant che pareva più un garage in disuso, con tutti gli afrori che diceva Kapuscinski, e ho riportato a casa intatte le budella e tutte le scatole di antibiotici e antidiarroici. Non mi hanno rapinato e non sono mai morto.

Ecco vedi, mi dico, e alla fine di tutto questo racconto è quello che volevo dirvi, potevate pure saltare tutto e leggere solo quest’ultima riga, le cose per conoscerle devi saperle, starle, camminarle. Allora confronti l’immaginazione con la realtà, la tua Africa interiore con quella di 1,3 miliardi di persone, ti succedono cose dentro, e poi non sarai più lo stesso, perché è per questo che viaggi, per cambiare. Qualcuno, sicuramente un romantico, lo chiama ancora ‘mal d’Africa’.

Sergio Celestino

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